Fastidiosi come una mosca. Ma in fin dei conti innocui e perdenti. Una decina di anni fa il tifoso tipo del Manchester United avrebbe risposto così a proposito dei concittadini del City. I vicini chiassosi, noisy neighbours lì definì Sir Alex Ferguson. Diventato paonazzo nell’estate del 2009 quando gli snobbati cugini si presero l’ex Carlos Tevez: «Sono un piccolo club con una piccola mentalità».
Eravamo agli albori del sovvertimento. Una lunga ma inesorabile rivoluzione stava per attraversare la Manchester del pallone, quasi fino a ribaltare i valori. Per capire i rapporti di forza dell’epoca si può partire da un dato. O meglio un digiuno, quello della sponda Light Blues: tredici anni di fila senza vincere un derby, dal 1989 al novembre del 2002. Dieci lunghe stagioni di Premier League prima di aggiudicarsi una stracittadina in questa competizione, lanciata nel 1992-93.
Una squadra nata povera e disgraziata. Tanto da ispirare a fine anni Novanta l’autore televisivo Colin Shindler e il suo libro “La mia vita rovinata dal Manchester United”. Un catalogo fatto di sventure e memorie di un ebreo ortodosso cresciuto nelle terraces, le gradinate, del Main Road, il vecchio stadio alla periferia sud della città.
Era il Manchester City del distretto di Moss Side, uno dei più poveri e malfamati di tutta l’Inghilterra. Oggi è il club dell’Etihad, la compagnia aerea di bandiera degli Emirati Arabi Uniti, e di quei petrodollari che hanno rivoluzionato il football a Manchester. «Non c’è più la situazione che c’era al mio arrivo. La differenza era un po’ come quella tra Barcellona e Espanyol». Le parole sono di Pablo Zabaleta, nove stagioni in maglia citizen.
Ben prima dell’addio di Sir Alex, il destino del City aveva già iniziato a prendere una piega diversa. Opposta a quella che lo aveva da sempre bollato. La data chiave è quella dell’1 settembre 2008, quando i citizens erano già promossi in Premier League da sei anni e veleggiavano a metà classifica. Senza la possibilità concreta di alzare un trofeo.
Finché il club non passò dalle mani dell’ex primo ministro thailandese Shinawatra a quelle dello sceicco Mansour, la cui portata economica, con 1400 miliardi di euro in portafoglio, ha letteralmente inondato di soldi una realtà come quella della Blue Moon.
L’appellativo di sceicco rimanda soprattutto alle campagne faraoniche, pari a 500 milioni di euro in meno di dieci anni ma dietro c’è anche un investimento di marketing mirato a innalzare anche l’appeal internazionale verso nuovi tifosi di tutto il mondo.
Oltre al rinnovamento delle strutture: il centro sportivo, ribattezzato City Football Academy, è diventato un modello di eccellenza, ovvero i ragazzi si allenano assieme ai grandi a pochi passi dallo stadio e in poco tempo tutta la struttura è diventata una delle migliori del mondo con ben sedici campi di allenamento.
Lo tsunami arrembante di quest’oggi è l’ennesima conferma che il cielo di Manchester, riprendendo Rino Gaetano, è sempre più blu. Ma allo stesso tempo, quel lungo digiuno contro i rivali concittadini è solo un ricordo se si pensa che in campionato, negli ultimi dieci anni, il City ha vinto altrettanto incontri. Si è andati vicini a un replay, questa volta in casa, di quel famoso e schiacciante 1-6 dei citizens a Old Trafford nel 2011-12, per cui divenne la pagina di una nuova narrazione storica della rivalità tra i due club.
Un’annata non casuale nella storia degli Sky Blues, tornati campioni d’Inghilterra dopo 44 anni di astinenza al termine dell’epica sfida contro il Qpr. E l’anno prima, sempre con Mancini in panchina, il City tornò a mettere un trofeo in bacheca: quella FA Cup fermò una carestia che durava dal 1976.
Di colpo sparì l’espressione umiliante “tipicamente City”, che indicava le perenni disgrazie di quella metà di Manchester. Il titolo del 2012 sottratto proprio ai Diavoli Rossi, arrivò con uno storico gol di Aguero e un coro autoironico, lanciato dopo quella campagna acquisti, sancì che nella Greater Manchester la rivoluzione era completa: “This how it feels to be City, this how it feels to be small.
“You sign Phil Jones, we sign Kun Aguero”.
Il Manchester City, dopo che Mancini e Pellegrini avevano vinto il titolo inglese ma non quella Champions League, traguardo dichiarato dalla proprietà, aveva scelto Josep Guardiola, per tutti Pep, per quasi tutti il miglior allenatore contemporaneo.
Un primo anno (2016-17) finito a notevole distanza dal Chelsea di Antonio Conte, una seconda stagione riuscendo a vincere il suo primo titolo inglese e una terza con un pazzesco record di punti, 100 sui 118 disponibili, quindi un nuovo titolo, respingendo l’assalto del Liverpool. Non solo: la stagione si concluse con una tripletta mai realizzata da alcun club, perché oltre a quella in campionato si sono aggiunte le vittorie di Coppa di Lega e in Coppa d’Inghilterra.
Nei successivi anni, conquista altre tre volte il trono più ambito d’Inghilterra, intervallato dalla vittoria dei rivali di questa nuova piccola era: i Reds di Jurgen Klopp, l’unico allenatore in circolazione in grado di reggere il confronto con il tecnico catalano. E poi l’amara serata di Oporto, quella finale di Champions dove un guizzo di Kai Havertz disintegrò i sogni dei tifosi citizens.
È la testimonianza di un altro segnale evidente della nuova Età del City: l’aver raggiunto per la prima volta una finale di Coppa dei Campioni. E oltretutto, Erling Haaland, Julian Alvarez, Kalvin Phillips, Manuel Akanji, gli acquisti dell’estate, assemblano un grido di voce: «vogliamo di più».
In tutto questo lasso di tempo, la parte rossa di Manchester ha ottenuto un’Europa League e una FA Cup sotto la guida di Josè Mourinho e la maggior parte dei giorni è stata lì a guardare i continui trionfi dei cugini, dieci anni prima definiti solo rumorosi e incapaci di raggiungere la piena luminosità della città.
Perché a Manchester potrebbe valere quella famosa parabola evangelica. Se è vero che gli ultimi diventeranno i primi.