Non si colgono i frutti della felicità sull’albero dell’ingiustizia.
Proverbio Persiano
11 uomini si tengono per mano. Il momento è arrivato. Sono lì, in quello stadio colmo di festa di bandiere e di gioia.
S’incamminano verso il campo. Quegli 11 uomini sono lì per “difendere”, per rappresentare con orgoglio il loro Paese. Hanno sognato quel momento da una vita, fin da quando erano bambini: giocare il mondiale.
11 uomini si tengono per mano. Si dispongono a centrocampo uno accanto all’altro, come il cerimoniale impone.
Le note dell’inno riecheggiano. 11 uomini si tengono per mano e si stringono. Gli occhi sono determinati. Le labbra non si muovono.
Le parole di quell’inno le cantano nel cuore. Non possono intonarle, non vogliono. Sono fieri, sono iraniani.
La loro è una protesta tanto silenziosa quanto potente.
11 uomini, 11 calciatori si tengono per mano. Rappresentano, un’intera nazione, un popolo, non possono rappresentare un governo, un regime repressivo. Non giocano per la politica, giocano per la gente.
11 uomini si tengono per mano lì al centro del campo. Ascoltano l’inno, ma non lo cantano. Negli occhi scorre l’emozione e la commozione.
Nei loro occhi c’è la luce dei credenti nella giustizia, come recita quell’inno che non vogliono cantare. Nelle vene scorre il coraggio, perché ci vuole coraggio a non cantare quelle parole.
Ascoltano l’inno e pensano alle loro famiglie, ai loro cari, ai loro amici, agli uomini e alle donne che nel loro Paese lottano contro l’ingiustizia.
Pensano alla giovane Mahsa Amini e nel cuore, lì e soltanto lì cantano: “oh martiri, i vostri clamori risuonano nelle orecchie del tempo”.
L’inno è terminato.
C’è una partita da giocare, c’è un mondiale da disputare, ma come recita quell’antico proverbio persiano, i frutti della felicità non li puoi cogliere sull’albero dell’ingiustizia.
11 calciatori, 11 uomini, 11 iraniani, il mondiale lo hanno già vinto.