Nel XVII secolo era consuetudine, per le ricche famiglie borghesi, intraprendere un viaggio che attraversasse l’Europa, al fine di affinare e sviluppare le proprie conoscenze artistiche o letterarie da riportare poi nel proprio paese natale. Spessissimo la meta era il nostro paese, come ci scrive Goethe nel suo libro “Viaggio in Italia”, in cui racconta tutte le sue tappe: da Trento a Palermo, passando ovviamente da Roma e da Firenze, culla del Rinascimento. Senza voler paragonare il calcio, che rimane uno sport, a tutto ciò che ha significato il Grand Tour per lo sviluppo della filosofia, dell’arte e della letteratura in Europa, proveremo a capire se anche in ambito calcistico la scuola italiana può ancora essere funzionale ed efficace rispetto alle correnti di pensiero straniere.
Per farlo abbiamo preso in esame le ultime 6 stagioni di Serie A, provando a capire quanti e quali allenatori stranieri hanno allenato nel campionato italiano e soprattutto perché. Non abbiamo tenuto in considerazione Sinisa Mihajlovic e Ivan Juric poiché sì stranieri, ma hanno entrambi sempre allenato in Italia, ad eccezione di una piccola parentesi per l’attuale allenatore del Bologna sulla panchina della nazionale serba tra il 2012 e il 2013.
I dati sono abbastanza eloquenti, dal momento che in 6 anni solo 6 allenatori vengono da oltreconfine: Frank De Boer, Igor Tudor, Diego Lopez, Julio Velazquez, Paulo Fonseca e Mourinho. Oltretutto, gli unici ad essere rimasti sulla stessa panchina per almeno una stagione intera sono coloro che si sono seduti sulla panchina della Roma, ovvero Fonseca e lo Special One.
Solamente due big del nostro calcio hanno tentato la strada estera, l’Inter con De Boer e appunto la Roma, per ragioni di base molto simili: allontanarsi dall’“italianità”, dunque da un calcio diretto, asciutto, verticale, e passare a un impianto di gioco più fluido e mobile, forse anche più estetico, e che quindi preferisce la costruzione da dietro, posizioni intercambiabili, recupero palla immediato e sviluppo della manovra per lo più sulle corsie esterne. Discorso a parte per Mourinho, che in un primo momento ha sperimentato anche per la “sua” Roma uno sviluppo sugli esterni per poi tornare alla verticalità immediata per Abraham e Zaniolo.
L’avventura di De Boer all’Inter è finita dopo appena 14 partite totali e solo 14 punti in campionato. Più longeva è stata l’avventura di Fonseca, che ha guidato la Roma per due stagioni ottenendo un quinto e un settimo posto, alternando parentesi di calcio tra le più belle e divertenti in Italia a periodi di involuzione abbastanza difficili da comprendere. L’esempio forse più lampante sono le due semifinali di Europa League contro il Manchester United: 3 tempi su 4 al livello, se non meglio, dei Red Devils, ma un tempo solo che è bastato alla catastrofe, incassando 5 gol decisivi per l’eliminazione dei giallorossi.
Tudor, Diego Lopez e Velazquez possono essere considerati come tentativi di apertura verso il nuovo, siano essi con la verticalità dell’uruguaiano o con i quadrilateri di gioco a tutto campo dello spagnolo, con un occhio alle possibilità economiche ridotte di società medio/piccole. E’ impossibile per realtà ristrette ingaggiare Mourinho, Guardiola o Klopp, ma è apprezzabile la voglia portare sul campo concetti innovativi. I risultati però non hanno rispettato le attese delle dirigenze.
Tutto ciò si contrappone al successo degli allenatori italiani all’estero: il che ci deve far riflettere sulla qualità dei principi di calcio insegnati a casa nostra. Abbiamo sentito dire forse fin troppe volte che il calcio italiano è lento, noioso e “troppo tattico” rispetto allo spettacolo degli altri campionati, Premier League in primis. Cambiando però punto di vista, si potrebbe dire che il calcio italiano impone uno studio maggiore da parte degli allenatori, con meccanismi tra giocatori e reparti studiati nel dettaglio che lasciano poco spazio all’improvvisazione. A differenza di quanto vediamo spesso all’estero, dove la fantasia è al potere e il singolo calciatore è molto più a briglie sciolte. La conseguenza è che chi arriva in Serie A da fuori può avere molte più difficoltà nell’affermarsi, perché il tatticismo e l’organizzazione nostrana può essere un ostacolo enorme se non lo si combatte con altrettanta preparazione. È sempre positivo aprirsi alle contaminazioni estere ed arricchirsi con principi, idee e metodologie di altri luoghi del mondo, ed è questo che hanno provato a fare ultimamente Cagliari, Brescia, Udinese, Inter e Roma con gli allenatori prima citati. Autoisolarsi spesso vuol dire condannarsi a non progredire mentre il resto del mondo va avanti. Bisogna però constatare che gli allenatori stranieri non hanno avuto, almeno fino a questo momento, le fondamenta necessarie per affermarsi con continuità in Serie A, un campionato che richiede più attenzione tattica di ogni altro campionato.
Altro aspetto da considerare: a partire dalla Spagna, le federazioni europee si stanno orientando, o si sono già orientate, verso una sorta di traccia comune. Fin dalle categorie del calcio giovanile, ciò che viene insegnato è in funzione di un’eventuale prima squadra e/o nazionale, di modo che chi ci arriva per la prima volta ha già un canovaccio che sa interpretare. Il pensiero italiano offre certamente dei dettami comuni, ma poi è il singolo allenatore che li declina in base alla propria idea di calcio. Ecco perché vediamo le giovanili del Barcellona che giocano secondo i principi del “Barcellonismo”, e non la primavera di Inter o Napoli impostate a modello dei “grandi”.
In conclusione, dovremmo forse imparare di più ad apprezzare quello che il nostro calcio ci offre senza dover per forza fare critica distruttiva, esaltando ad ogni costo il calcio che si fa fuori dall’Italia. Per vedere allenatori stranieri stabilizzarsi con successo in Italia, magari sarebbe utile farli passare almeno una volta da Coverciano. Forse il Grand Tour del calcio non sarebbe una cattiva idea.