“Alcuni credono che il calcio sia una questione di vita o di morte. Non sono d’accordo.
Il calcio è molto, molto di più”.
Bill Shankly
Questa è la storia di un uomo, di un pallone e di una coccinella.
Predrag giocava per strada. Bastava poco per essere felici. Un pallone, gli amici di sempre e la magia iniziava.
Predrag aveva un sogno: quello di diventare un calciatore. Era un sognatore e, come tutti i sognatori, era un folle. Viveva in una città multiculturale, aperta ed era orgoglioso. Per Pedrag non esistevano distinzioni, non esistevano barriere. Inseguendo un pallone, divenne un calciatore. Inseguendo un pallone, divenne uomo e cittadino del mondo.
Un giorno, quel mondo nel quale era cresciuto, cambiò. Su quelle strade in cui giocava da bambino, piombò la fame, la morte, la guerra. Decise di combattere. Non lo fece imbracciando un fucile. Non lo fece sparando e uccidendo. Predrag decise di usare l’unica “arma” che conosceva. Decise di arginare l’odio con il coraggio, la gioia e il calcio. Decise di rispondere al fuoco e alle pallottole con una piccola, straordinaria coccinella.
Predrag Pašić nasce a Sarajevo il 18 ottobre del 1958. È serbo di religione ortodossa. Fin da bambino ha un sogno, quello di diventare un calciatore. Giocando per le strade di Sarajevo, Pašić è felice.
Sarajevo è un esempio di tolleranza, di civiltà, di convivenza. Predrag è orgoglioso della sua terra. È fiero di essere cittadino di una città aperta, spalancata al mondo, nella quale potevi sentire le campane delle chiese cattoliche, i suoni dal sapore orientale delle moschee e vedere gli ebrei andare in sinagoga per lo Shabbat.
Pedrag è bravo con quel pallone. È un centrocampista tenace e coraggioso. Ha polmoni, gambe, cervello e tecnica. Ben presto le strade di Sarajevo verranno sostituite da stadi veri.
Inizia la sua carriera nella squadra della sua città. Nel 1975, Predrag Pašić è un giocatore del FK Sarajevo. Si forma come atleta, calciatore, ma anche come uomo.
Il club è all’avanguardia e dispone di un preparatore psicologico. Si chiama Radovan Karadžić. È un uomo carismatico e ha una forte influenza sulla squadra. Aiuta i calciatori a superare momenti difficili. Li motiva, li sprona, li ascolta. Insegna agli atleti lo spirito di gruppo. Insegna loro che la forza è nelle differenze di ognuno. Insegna loro che la diversità è una risorsa. Li ossessiona con poche semplici parole: siamo tutti parte della stessa squadra, siamo un’unica identità.
Pedrag crede in quell’uomo e in quei principi. Quegli insegnamenti, quei principi sono i fondamenti sui quali edifica la sua carriera e la sua vita.
Diventa sempre più bravo e più forte. Diventa così forte da meritarsi la nazionale. Nel 1981 fa il suo esordio con la maglia della Jugoslavia e nel 1982 è in Spagna per disputare il Campionato del Mondo. Nel 1985, vince il campionato nazionale. Dopo dieci stagioni nel Sarajevo, si trasferisce in Germania allo Stoccarda. Nel 1987, Predrag Pašić appende le scarpette al chiodo e torna nella sua amata Sarajevo.
3 marzo 1992. Il presidente Alija Izetbegović, in seguito al referendum con il quale il 99,7% dei votanti si era espresso a favore dell’indipendenza, dichiara la nascita della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina.
La Jugoslavia si dissolve. I nazionalismi, le differenze e l’odio prendono il sopravvento. I Bosniaci/ Musulmani e i Croati/Bosniaci si erano dichiarati per l’indipendenza, i Serbi/Bosniaci no. La guerra è inevitabile.
I militari Serbi accerchiano Sarajevo. La Gerusalemme d’Europa viene affamata, distrutta. Sarajevo non è più una città aperta al mondo. Non si sentono più le campane delle chiese e i suoni delle moschee, ma solo i colpi di mortaio e le cannonate. Nelle strade non ci sono più i bambini che giocano a pallone. Gli edifici si trasformano in cumuli di macerie. Le strade diventano territorio dei cecchini che sparano e uccidono. I fratelli, gli amici, i vicini di casa diventano nemici. Le diversità etniche e religiose diventano barriere insormontabili.
Radovan Karadžić, il preparatore psicologico del FK Sarajevo, si è dato alla politica. Ha rinnegato quei principi che insegnava a quei giovani atleti. Non crede più nella diversità come risorsa. Per Karadžić ora, l’etnia la religione sono discriminanti per uccidere. È spietato, è il nemico.
Pedrag Pašić quei principi non li ha rinnegati. È serbo, ma è un cittadino del mondo. Poteva andar via dalla sua Sarajevo. Poteva scappare dalla guerra, poteva tornare in Germania ma non l’ha fatto. Ha rifiutato la proposta dello Stoccarda di allenare le selezioni giovanili. Il suo posto è nella sua città.
1993. Sarajevo è allo stremo. È assediata da un anno. La gente muore. È affamata. Non c’è nulla. Vige un’unica priorità: sopravvivere.
Anche Predrag ha una priorità. È un sognatore e come tutti i sognatori è un folle. Si presenta in radio e fa un appello coraggioso. Ha deciso di dar vita ad una scuola calcio, la Bubamara, coccinella in croato. Non a caso ha scelto quel nome. La coccinella è simbolo di fortuna, di speranza. È il simbolo dei sogni che si avverano.
Pašić vuole restituire normalità alla sua città. Vuole che i bambini tornino a giocare, a sognare. Con la Bubamara vuole lanciare un messaggio: per resistere all’assedio bisogna tornare a vivere. Per vincere l’odio e la violenza usa l’unica “arma” che conosce: il calcio.
Invita tutti i bambini della città a presentarsi al centro sportivo di Skenderija. L’indomani, inaspettatamente, si presentano in centinaia. Sono serbi, croati, mussulmani, cattolici, ortodossi.
Per giungere al centro sportivo sono costretti ad attraversare un ponte. I ponti sono costruiti per unire, ma a Sarajevo non univano. Quel ponte, il ponte di Vrbanja è sotto il tiro dei cecchini.
I ragazzi decidono di percorrerlo tutti insieme prendendosi per mano, stringendosi, unendosi. In quell’abbraccio non esistono etnie, diversità, ma solo umanità, voglia di tornare a vivere. Lo fanno due volte al giorno, tre volte alla settimana. Pur di giocare, pur di acciuffare la Bubamara, la coccinella, sfidano i cecchini e la morte.
Il centro sportivo di Skenderija, in realtà, è una palestra fatiscente. Si trova vicino ad un cimitero. In quell’edificio non ci sono differenze. Mentre il mondo fuori è lacerato, in quella scuola calcio non esistono divisioni. Non esistono nemici, ma solo compagni da aiutare e avversari ai quali fare gol.
I bambini tornano a giocare, tornano a sorridere, a sognare. Predrag, ogni giorno, ripete loro poche semplici parole: siamo tutti parte della stessa squadra, siamo un’unica identità.
Febbraio 1996. Dopo 1425 giorni, Sarajevo è libera.
Radovan Karadžić è stato condannato nel marzo 2016 a 40 anni di reclusione in primo grado dal tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia per genocidio (a Srebrenica), crimini di guerra e crimini contro l’umanità durante l’assedio di Sarajevo, il massacro di Srebrenica e le altre campagne di pulizia etnica contro i civili non serbi durante la guerra in Bosnia.
Da quel 1993 la Bubamara non si è mai fermata. Predrag continua ad insegnare calcio e continua a ripetere ai suoi allievi quei principi di tolleranza, civiltà, che lo hanno reso un atleta, un calciatore, un uomo.
Questa è la storia di Predrag Pašić, il calciatore, il sognatore, il folle, l’uomo che con un pallone e una coccinella restituì ai bambini di Sarajevo la possibilità di sognare.